giovedì 21 novembre 2019

LA VOLPE E L'UVA REMASTERED - capitolo 2 - Mosto di Morti

Qualunque fosse il motivo per cui fosse successo quello che era successo, era ormai passato un anno. Pochi erano sopravvissuti. Solo i duri, solo i forti. E la terra non era stata forte. Gaia aveva sofferto, in maniera atroce, come una madre a cui unghie appuntite avessero squarciato il ventre, e zanne sadiche avessero banchettato con la prole nel grembo, per poi lasciarla in vita solo per non interrompere la sua sofferenza. E la terra pianse, pianse finché gli occhi furono talmente infiammati che andarono in cancrena e si staccarono, ma continuarono a piangere, tali erano la sofferenza e la devastazione inferte al mondo. Il numero di morti durante la terribile guerra era impressionante. Quasi tutta la popolazione della Grecia si era estinta. Ateniesi, spartani, troiani. L'isola di Itaca era sprofondata. L'arcadia era completamente deformata, ridotta a una grossa conca nella quale crepitavano fiamme dal sottosuolo e i resti di poveri animali inceneriti dalla lava, bloccati per l'eternità in grottesche pose di disperazione. Tebe, Corinto, Delfi, ormai solo un ricordo e le menti rese folli dal dolore dei pochi sopravvissuti, non riuscivano più a figurarsi che posti così belli e sfarzosi fossero potuti esistere veramente. Nell'incubo che era diventato abitudine, il passato sembrava solo un sogno, qualcosa che non sarebbe potuto esistere mai più. Posti dove la gloria dell'uomo splendeva. Ma ormai, non c'era più nessuna gloria nella vita. Frequenti erano i suicidi tra i sopravvissuti, persino gli animali, incapaci di concepire il suicidio, erano arrivati a tal punto. Gli erbivori perdevano ogni voglia di vivere; anziché fuggire i predatori, si avvicinavano alle fauci di questi ultimi, i quali, per contro, si lasciavano spontaneamente morire di fame e rifiutavano il cibo, sperando così di fermare finalmente le lacrime. Il mondo, in seguito agli sconvolgimenti, era stato decimato e sopravvivere in una terra che non dava più frutti e dove il magma bollente aveva sostituito l'acqua dolce era pressoché impossibile. Sembrava che non ci fosse più nemmeno un dio a cui rivolgersi per supplicare misericordia. Elio era certamente morto o comunque aveva terrore di uscire allo scoperto, infatti il sole non sorgeva ormai da mesi. Ma quali fiamme o quali oscuri poteri potevano minacciare il Sole? Gli stessi che avevano spinto al suicidio uomini e animali. Molti sceglievano di gettarsi in mare, così le acque erano ormai stracolme di cadaveri, i mari erano come un immenso tino di mosto e i cadaveri come acini d'uva lasciati a fermentare... Uno spumoso vino di sangue lambiva le coste, mescolandosi con le lacrime di quelli che si ostinavano a vivere.

Brachys era un valoroso soldato tebano, appartenente al battaglione sacro. Centocinquanta coppie di soldati, trecento uomini che combattevano per ispirazione divina, per Eros. Peos era il suo compagno. Quello forte nella coppia era sempre stato lui, quello dominante. Peos non era originario di Tebe, suo padre era spartano. Le voci circolano e si arrivò a dire di lui che fosse figlio di Zeus, di un centauro o persino del prode Leonida. Follia pura: in realtà il padre di Peos aveva ripudiato la madre: tornato da una breve campagna militare, udì da voci calunniose che la donna era stata violentata. A lungo ella giurò al marito che il figlio che portava in grembo era veramente suo, ma egli, folle di gelosia, non volle saper ragioni e la buttò fuori di casa proprio come si butta da una scogliera un caprone malato e contagioso.  La donna, gravida, seppur disonorata era ancora giovane e nel pieno delle sue grazie. Sposò così un mercante tebano e andò a vivere presso di lui a Tebe. L'uomo raccontò a tutti che il figlio nel grembo della donna era il suo e la sposò. Gli anni trascorsero così felici e il piccolo Peos fece una vita agiata e serena, troppo serena per lui. C'era sempre qualcosa che lo rendeva agitato e rabbioso, voleva dimostrare agli altri il suo valore, dunque si fece soldato. Non era nemmeno dodicenne, quando rubò uno dei cavalli del padre putativo e partì per arruolarsi, ignorando il volere dei genitori. Sotto le armi conobbe Brachys, un valoroso combattente, più forte di quanto egli stesso credesse e soprattutto, molto resistente al dolore. Ferito in battaglia, egli non si fermava, anzi, sembrava che il dolore lo conducesse all'esaltazione, nella quale, con la stessa frenesia di un cavallo spronato dalla frusta, uccideva i nemici. Tuttavia, Brachys, non aveva alcuna stima né fiducia in sé stesso, ma aveva trovato in Peos quello stimolo per cui combattere. I due si erano innamorati quasi subito. Peos era ormai quindicenne ed era considerato a tutti gli effetti un soldato di Tebe, quando conobbe Brachys, di due anni più giovane di lui e ancora sottoposto ad un duro addestramento. Rimase impressionato dalla capacità di sacrificarsi del ragazzo, del suo combattere nonostante fatica, freddo, fame e ferite aperte in corpo. A differenza di altri soldati, sembrava che Brachys non combattesse per l'onore e per la gloria, ma per soffrire ed essere umiliato, in una perenne ricerca della morte. Questo lo rendeva un guerriero imprevedibile in battaglia e molto pericoloso. Passarono dieci anni, i due erano ormai una coppia, insieme avevano combattuto molte battaglie e rischiato spesso la vita assieme e l'un per l'altro. Ma Brachys, spesso taciturno, non aveva mai rivelato il suo passato a Peos, che lo amava lo stesso, ma era un po' deluso nel constatare che il suo compagno spesso non si confidava con lui e affrontava da solo i propri demoni. Avrebbe voluto incoraggiarlo e consigliarlo, ma non poteva far niente.

Così, in una giornata di congedo, con una campagna militare ormai alle spalle e nessuna guerra all'orizzonte, i due soldati, che avevano ormai di che vivere ed erano celebrati in tutta Tebe come valorosi veterani, decisero di tornare nel loro palazzo ai piedi del monte Citerone, dove solitamente trascorrevano le vacanze e dove nel quale, in loro assenza, servi e pastori si occupavano della casa, delle vigne e delle pecore. Il palazzo era dotato anche di una piccola corte, dove, nelle serate estive, si radunavano suonatori dai villaggi confinanti e nei lunghi inverni ci si scaldava con il vino, il cui raccolto era sempre abbondante. Brachys e Peos infatti erano molto devoti a Dioniso, anzi forse erano i più devoti di tutta Tebe. Gran parte dei loro guadagni erano stati spesi per costruire di fronte al loro palazzo una maestosa statua di Dioniso. Si diceva infatti che i due avessero il favore del Dio e Brachys dava il meglio di sé quando, in preda ai fumi del nettare d'uva, combatteva senza aver controllo di sé e resistendo ad ogni dolore, quasi che Dioniso stesso si impossessasse del suo corpo e lo manovrasse come un burattino.

Si fece sera e i due si appartarono nelle loro aule, dove sotto una terrazza composta da grandi logge e tende di seta ondulate, si potevano ben vedere il cielo stellato che riparava come un immenso scudo il monte. Peos riempì un calice del loro vino a Brachys e poi ne versò per sé. Alzarano i calici e dissero:

"Al monte sacro a Dioniso!"
"Al monte Citerone"

I due bevvero e il loro vino era un rosso davvero forte, come se la vigna fosse benedetta da qualche prodigio del dio. Fuoco Greco, avevano osato chiamarlo, con un pizzico di arroganza, voluta perlopiù da Peos. Ma il vino era davvero capace di infiammare subito anche uomini alti e fisicamente prestanti come i due soldati. Dopo un paio di bicchieri, Peos accese degli incensi e condusse Brachys nella sala da bagno, dove una vasca di marmo e terracotta accoglieva l'acqua che sgorgava da una sorgente nei pressi. Lì accese delle preziosissime candele, ottenute a caro prezzo da un apicoltore amico del patrigno. Si adagiarono assieme nella vasca, che rilasciava un leggero calore termale. Il tepore dell'acqua, il calore dell'alcol e il calore dei loro atletici corpi produssero il loro effetto. Peos afferrò Brachys per la nuca, ne afferrò i capelli, abbassò la sua testa all'indietro e prese a baciarlo appassionatamente. Conoscendo bene la resistenza del suo compagno al dolore, gli morse le labbra. Questo scatenò in Brachys un sussulto involontario e una parte di lui divenne tesa, fino a premere sulla coscia di Peos. Quando il compagno arrivava a questo punto, Peos sapeva cosa fare. Afferrò Brachys per il collo e lo rigirò. Naturalmente non avrebbe mai potuto rigirare così facilmente il virile e forzuto Brachys con le sue sole forze, era il compagno che si lasciava fare, passivo di indole caratteriale e non certo incapace di difendersi. E così, lo stesso soldato che aveva vinto battaglie, ucciso valorosi rivali, conquistato città e impaurito re, ora veniva umilmente infilzato dall'irruenza del compagno, che ebbro di questa consapevolezza, insisteva quasi con rabbia nel sottometterlo. Peos sapeva bene che Brachys era molto più forte di lui. Se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto riempirsi di ogni gloria e ambire al ruolo di generale supremo di Tebe. Eppure, la sua indole lo portava ad avere un segreto piacere nell'essere umiliato, non certo nel trionfo della superbia. Peos non se ne crucciava, poiché finché fosse stato al suo fianco a dirigerlo, la sua carriera era assicurata. Ma segretamente invidiava il compagno e ne era geloso e desiderava che la sua forza fosse tutta sua. Possederlo fisicamente era l'unico modo per compensare questi sentimenti. Fu in quel momento, mentre i due erano presi dall'affanno del virile amplesso, che il monte Citerone esplose di botto, come se una forza ben oltre la comprensione umana e divina lo avesse colpito, come se le divinità primordiali si fossero ridestate da un sonno lungo quanto il tempo stesso, per riplasmare il mondo. Ma i due compagni erano talmente presi dal loro atto sessuale e tanto grandi erano le sensazioni che stavano provando, che non si poterono fermare, nemmeno quando la terra cominciò a tremare come la corda di una lira e i servi cominciarono a correre e a gridare: "Aiuto!" per la disperazione. In quel momento i due erano totalmente persi nei loro sensi e nel loro vino, il Fuoco Greco, e non sentivano più null'altro. Ognuno era il mondo dell'altro, un mondo in cui ogni altra sensazione era esclusa, ed esisteva solo il piacere. Il piacere di essere dominato, per Brachys, e il piacere di dominare, per Peos.

Passarono le ore e ad un alba che stranamente non giunse, Brachys si risvegliò. Tutto era stato raso al suolo e il suolo era sprofondato. La montagna, all'ombra della quale la loro casa risiedeva, era come se non ci fosse mai stata. Tuttavia l'ombra permaneva, perché il sole non era in cielo e sembrava che il mondo fosse avvolto da una notte perenne. Infine lo vide. Peos si era suicidato. La visione di tutto questa devastazione e tormento, lo avevano distrutto. Peos era ambizioso e sapere che tutto era perduto, doveva averlo sconvolto. Solo Brachys, nel suo masochismo, poteva accettare questo mondo infernale fatto di sofferenza, e viverci. Pianse così la morte di Peos per giorni e incominciò a domandarsi quale fosse la causa di tutto questo e se vi fossero ancora altri sopravvissuti. Ancora non sapeva, quanto infernale poteva essere questo mondo.

Pregò Dioniso affinché lo ascoltasse, riponendo nel dio ogni fiducia.
Il dio apparve, nudo, un grappolo d'uva saldamente piantato in testa.

"Alzati."

Disse.

"Oh figlio di Zeus e Persefone, perché gli dei castigano così il mondo? Noi ti abbiamo sempre onorato con devozione! Perché al mio compagno non è stata riservata un'onorevole morte in battaglia?"

"La stessa crudeltà che sta castigando gli uomini, odia con ancora più forza gli dèi. Ciò che è accaduto alla terra è solo il frutto di un suo capriccio."

"Spiegati, dio dell'ebbrezza"

"Non qui, non è sicuro. Ti condurrò ove dimorano gli dèi."

"Il monte Olimpo?"

"L'Olimpo è caduto, tebano."

"Cosa? COSA? Com'è poss..."

In quel momento apparve una cosa. Un essere capace di fiutare l'intero universo. Parve comparire dal nulla, invece era arrivata silenziosa e a grandissima velocità. Era sangue, puro sangue, rosso e bollente come il vino, al centro del quale pulsava un'oscurità nera come il più profondo cielo notturno.

Una voce terribile, capace da sola di terrorizzare l'uomo e il dio, ringhiò:

"NON E' ACERBAAAAAAAAA! NON E' ACERBAAAAAAA!"

E non sarebbe mai marcita finché sarebbe rimasta in capo al dio.

"Ganimede!" gridò Dioniso, disperato.

E Ganimede apparve. Pareva nudo, ma indossava veli tanto aderenti e trasparenti da farlo apparire tale. I capelli biondi non sembravano aurei, erano esattamente fatti d'oro. Sul corpo tanti disegni, fatti dal padre degli con i lampi, per diletto.

Ganimede apparve, il corpo gocciolante di un liquido misterioso. Levando le braccia verso l'alto, fece apparire un brocca di vino, con la quale cosparse Brachys e Dioniso, che scomparvero. Infine, evocò una coppa contenente un liquido misterioso, che pareva latte di capra, ma più denso e se lo schizzò in faccia, cominciando a leccarsi le labbra sporche del mistico liquido, finché non sparì anche lui.

Il trio, riapparve nell'isola di Lesbo, fra le poche isole rimaste in tutta la Grecia. L'unica isola dove esistesse ancora acqua potabile e che permettesse la vita. Ma non essendo più il mare navigabile perché continuamente in tempesta e infestato di cadaveri che stavano cominciando ad attirare mostri marini dagli abissi, solo chi volava o sapeva utilizzare la magia poteva raggiungere l'isola, che era ormai quindi completamente preclusa agli uomini.

Brachys era completamente spaesato.

"Ti devo spiegazioni." Disse colui che brandiva il tirso.

Si sedettero sul ceppo di un tronco tagliato dalla scure dorata di un boscaiolo che era stata lasciata lì vicino. Il proprietario, terrorizzato dai terremoti, doveva averla perduta.

"Tutto questo è accaduto a causa dell'ambizione di una semplice volpe. Che non è una semplice volpe, ma un'entità che possiede poteri simili a quelli degli esseri primordiali, le forze che hanno creato il mondo. Da volpe osò sfidarmi, ma io, che grazie a mio padre Zeus conoscevo la sua pericolosità, tentai di fermarla. Ma era già troppo tardi. Il Re dell'Olimpo mi aveva avvertito, profeticamente, che una volpe arrogante sarebbe venuta allo scoperto, manifestando il bisogno di sovvertire le leggi naturali. Fortunatamente, un tordo mio servitore era lì in quel momento a testimoniare l'evento. Pregando dentro di sé mi richiamò. Intervenni, ma fui costretto alla ritirata dalla potenza di quell'essere."

"Hai detto che voleva sovvertire le leggi naturali. Cosa intendi?"

"Uva" disse Ganimede.

"Il grappolo d'uva posto sulla mia fronte."

"Uva..." Disse Brachys.

"Cioè, quello che è successo al mondo... E'accaduto per un grappolo d'uva? Ho perso Peos perché una volpa voleva mangiare dell'uva?"

"Sì. E' così."

"NOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!" Perfino per un masochista come lui questo dolore era troppo.

E in lacrime disse: "Ma perché? Perché non gliela avete lasciata prendere? Cos'é misera uva in cambio delle sorti del mondo?"

"L'uva è solo un simbolo. E' l'idea della volpa di voler alterare le leggi naturali, il vero pericolo. Le idee, nel regno materiale, non sono perfette, assolute, inalterabili, senza tempo. La profezia che mio padre Zeus mi rivelò, diceva che se questo essere antico avesse realizzato una sua ambizione, una sua idea, una soltanto, tutte le altre sue idee avrebbero preso perfetta forma in questo mondo. Così, questo essere avrebbe avuto poteri assoluti su tutto ciò che esiste, sia nel mondo materiale che in quello ideale. Avrebbe posseduto poteri totali, superiori persino a quelli del Demiurgo. Ma la sua natura distruttiva l'avrebbe portata a non accontentarsi di deformare il mondo con la violenza che hai visto. Probabilmente avrebbe annullato ogni cosa, avrebbe distrutto l'eternità, il tempo, la vastità delle stelle e la memoria di tutto il creato. Infine, avrebbe spento pure il mondo delle idee, impedendo alle cose di generarsi di nuovo, come se nulla fosse mai esistito. Per questo, ho dovuto fermarla, a rischio della mia vita."

"Ma come? Come? Cosa stanno facendo gli altri déi? Potrebbero valutare un'alleanza coi titani e..."

"Gli dèi sono stati decimati. Ciò che è accaduto al mondo è il frutto della strage operata dalla volpe. Solo io e Ganimede siamo rimasti. Forse Elio, che si nasconde. Non abbiamo notizie di Ade, dalle profondità della terra. Zeus è stato il primo a cadere. I cadaveri di molti titani sono seminati per la Grecia, la testa di Crono ha sepolto Atene."

"E cosa volete da me? Come posso aiutarvi io, un semplice soldato?"

"E' la tua idea di vendetta che cercavo. Tu sei l'unico uomo innamorato rimasto al mondo. Che anche nella tragedia ricorda l'amore. Tu vuoi vendicarti della volpe. Tu immagini nella tua mente la volpe morta. Nel mondo delle idee c'è l'idea pura, cristallina e perfetta di te che uccidi questa volpe. Non dovremo fare alto che prendere questa idea e portarla nel mondo materiale... E la volpe morirà."

"Ma questo è impossibile. Idee e mondo materiale sono completamente separati."

"E invece io ti dico che sono dipendenti l'uno dall'altro." Indicò un gran palazzo con una corte, una specie di accademia. "Seguimi, Brachyos, c'è chi te lo potrà spiegare meglio di me.

Entrarono, arrivarono ad una solenne stanza, dove una studiosa era intenta a fare ricerche su tomi che pareva avrebbero potuto spezzare la sua esile colonna vertebrale da libellula.

Ganimede disse: "Brachys, ti presento Saffo, poetessa e filosofa, la migliore di tutta la Grecia."

Saffo sorrise: "La migliore di tutta l'isola, sarebbe dir troppo."

Brachys ne restò sconvolto. Non aveva più visto nessuno sorridere da giorni.

"So cosa ti turba, guerriero. Ti chiedi cosa ci sia da ridere. In effetti, anche io sono in grave lutto. Le mie studentesse sono tutte suicide. Io mi sono bloccata per giorni, congelata nei miei pensieri, senza mangiare e bere. Finché non ho incontrato Dioniso, in fuga nella mia isola. Grazie al suo tirso, abbiamo ricostruito alcune cose, ma soprattutto, i miei pensieri mi hanno ridonato la speranza. Io ho suggerito al dio di cercare una persona con un intenso desiderio di vendetta verso la volpe."

"Già, ma cosa posso fare? Raggiungere il mondo delle idee è impossibile, scellerati!"




domenica 14 luglio 2019

LA VOLPE E L'UVA REMASTERED - capitolo 1 - Volpe Rosso Sangue

C'era una volta una crudele volpe senza nome. Essa era furba, molto furba. La più intelligente fra le volpi. Ma il suo non era un cervello da volpe studiosa. Era dotata di un'intelligenza più pragmatica, una sorta di astuzia e di imprevedibilità uniche, atipiche persino tra le volpi, che rendevano il suo cervello più simile a quello di un essere umano, nei pregi e nei difetti. Ma nonostante fosse piuttosto cerebrale, non era una volpe calma e indulgente, era una tra le più violente volpi mai esistite. La sua bocca era sempre lorda del sangue di qualche povero animale. Staccava spesso la testa alle lepri, per punirle della loro arroganza. Esse si consideravano più veloci di lei e infatti lo erano. Ma questo non era sufficiente per sopravvivere agli agguati di una volpe esperta come lei. Le istrici, erano difese dai loro lunghissimi aculei. Eppure nulla poteva impedire alla volpe di sbranare le loro carni vive e gustarle insieme alla loro sofferenza. E gli uccelli? Quale affronto alla sovranità della volpe. Quale insulto al suo intelletto. Solo perché erano dotati di un paio d'ali, pensavano di essere al sicuro. Eppure anche loro dovevano posarsi a terra, ogni tanto. E così la volpe non si privava neppure del piacere delle loro tenere ossa. Una notte era riuscita persino a strappare con un morso un'ala ad un gufo solitario. Dei cinghiali, era riuscita ad uccidere i cuccioli, approfittando poi del lutto dei genitori, per azzannar loro la gola senza pietà. E osò sfidare persino l'uomo, quando una volta sbucò alle spalle di un pescatore, per mangiare tutti i pesci che questi aveva raccolto in una cesta di vimini. L'uomo si arrabbiò, ma la volpe lesta, di sorpresa, gli morse una mano e riuscì a staccargli due dita.

Ed aveva ancora le fauci sporche del sangue del disgraziato pescatore e le sue dita nello stomaco, che la volpe maturò un'idea, tra sé e sé:

-"Certo, la carne è cosa buona e io in questo son per certo un'esperta. Ma ormai il suo sapore mi ha annoiato, sono persino stanca del suo odore. Devo cambiare, provare qualcosa di diverso. Non per una reale esigenza, ma per puro vezzo, per puro capriccio. Una velleità che un essere scaltro come me può permettersi, non avendo più niente da dimostrare a nessuno ed avendo provato di tutto"

Così la volpe uscì dai boschi e si recò in una terra dai campi coltivati, ove l'uomo regnava.

-"Solo due gambe e quasi totalmente privi di olfatto. Non rappresentano un pericolo, ma non devo sottovalutare il loro numero. Peggio dei topi!"

Pensò tra sé e sé la volpe e così, con cautela, la volpe si mosse tra campi e sentieri, dove c'erano cavalli, mucche e pecore al pascolo.

-"Amano anche circondarsi di altri animali, tra cui i cani. Ma sono solo stupidi servi che non possono causare guai a una volpe scaltra come me!"

Tutto ciò era assolutamente vero, la volpe non peccava di superbia, anzi era più che capace di valutare le circostanze e muoversi anche in quel territorio.

Arrivò infine nei pressi di una grandissima vigna, circondata da una gigantesca siepe. Al centro, fra tutti i filari, v'era una grossa torre, dove probabilmente abitavano i vignaioli. La volpe si intrufolò agilmente nella siepe, scrutando con attenzione uomini e donne intenti a vendemmiare. Ma li aveva già fiutati da una grandissima distanza e conosceva perfettamente le loro posizioni. Non c'era ostacolo che la volpe, con le sue grandissime capacità, non potesse superare. Cercò un filare ancora carico d'uva, dove nessuno in quel momento stava vendemmiando e lì si pose, per rubarla.

Eppure, nonostante fosse così furba e forte, un solo dettaglio era sfuggito all'ambiziosa volpe. L'uva si trovava troppo in alto. Ed essa non poteva raggiungerla, neppure saltando. Non c'era nessuno stratagemma che la volpe potesse mettere in atto, nessuna manipolazione, nessun inganno. L'uva, molto semplicemente, era al di fuori della sua portata. E niente, nulla avrebbe potuto fare la povera volpe per ottenerla. Nemmeno con l'aiuto di un dio o di un demone, nemmeno mettendo il mondo a ferro e fuoco e causando atroci e disperati tormenti a tutti gli innocenti del creato, la volpe avrebbe potuto ottenere quell'uva.

Ma la volpe non si diede per vinta. Essendo dotata d'ingegno, notò una scala che i vignaioli avevano dimenticato nei pressi. Arrotolò un pezzo di corda tra i pioli e con enormi sforzi la trascinò fino alla vite. Infine, legò un sasso alla corda e con una specie di contrappeso, riuscì persino a sollevarla. Vi si arrampicò, ma alcuni pioli al centro della scala erano marci, dopo essere stati esposti alle intemperie per chissà quanto tempo, e si sfasciarono al minimo contatto.

Così la volpe, che in cuor suo non aveva mai rinunciato a niente e aveva persino assaggiato la carne dell'uomo, penso tra sé e sé.

"Ma sì, in fondo è solo un capriccio. Non devo dimostrare niente a nessuno. In fondo non sono nemmeno fatta per mangiare uva, ma per mangiare la carne viva di chi sottometto. E' solo un capriccio. Posso rinunciare. E magari quest'uva non è neppure matura."

S'era ormai fatta sera e fu in quel momento, che dal buio oltre la siepe, sullo stralcio più alto della vite, si posò un allegro e cinguettante tordo. Esso non aveva nulla di particolare, era solo un comune tordo, uno come centinaia di altri tordi che affollavano quella regione. Saltabeccando sulla vite, come se niente fosse, il garrulo tordo raggiunse l'acino più alto del grappolo più alto di tutto il filare e lo gustò avidamente.

La volpe allora prese a ringhiare infuriata, quasi che il tordo avesse fatto un affronto a lei in persona e prese a fissare il tordo dal basso, con sdegno, rabbia e disprezzo.

Il felice tordo osservò la volpe curioso e gaudente iniziò a cantare:

-"Che hai sorella volpe? Mi presento, sono il tordo Ciril. Quest'uva è proprio deliziosa, non trovi anche tu?"

-"Maledetto!"

Ringhiò la volpe.

-"Sai bene che non posso raggiungerla ed osi insultarmi in questa maniera? Mangerò l'uva direttamente dal tuo stomaco non appena ti poserai a terra!"

-"Ma veramente io..."

Fischiettò l'uccellino.

-"Non avevo nemmeno capito che tu non potessi raggiungerla. Sono appena arrivato. Non era mia intenzione offenderti o nobile volpe. Accetta in segno della mia amicizia un grappolo d'uva, che per te staccherò col mio puntuto becco e farò scivolare a terra."

E infine il manto della volpe sembrò farsi, da fulvo che era, rosso come il sangue che aveva attorno alla bocca, quasi che un demonio o un'entità parve improvvisamente manifestarsi, come a scrutare il mondo dai suoi occhi, quasi che questi ultimi fossero due finestre spalancate verso un convulso abisso di follia.

-"Di tutte le umiliazioni, questa infine è la più grossa. Non c'è oltraggio che io abbia subito in vita a cui io non abbia potuto riparare con la lotta. Ma tu, te ne stai lassù al sicuro e mi parli come se fossi superiore a me, inoltre pretendi pure di lanciarmi a terra un'elemosina? No, nemmeno mangiare l'uva dalle tue interiora sarà sufficiente. Tu vedrai che io posso prenderla. Poi morirai."

Le trillanti risate del gioioso tordo riecheggiarono come artigli nelle orecchie della volpe.

"Prendere l'uva? Tu non puoi prendere l'uva. Non vedi che persino il grappolo più basso non è alla tua portata? Grandi sono i doni che Artemide ti ha concesso, o volpe feroce, velocissima di passo quanto di pensiero. Ma le ali non sono tra questi. Le piume sono un privilegio concesso a noi alati, così come i frutti dei rami più alti. Se volessi, io, potrei persino levarmi sopra la cima di un castagno e afferrarne i frutti. Ma tu non potresti mai, potresti solo aspettare che giunga l'ora in cui esso decida di abbandonare i suoi figli alla madre Gaia.

E poi voi volpi siete notoriamente carnivore; vuoi forse sovvertire l'ordine della natura e il volere degli dèi, per un tuo mero capriccio?"

E così, la volpe, non riuscì a perdonarsi mai più di aver in cuor suo rinunciato ancor prima di aver provato. La questione ora aveva di nuovo importanza e aveva eccome qualcosa da dimostrare. Non all'inutile tordo, ma agli dèi, a quegli esseri che decidevano il destino del mondo e ancora prima che nascesse, avevano determinato che una volpe come lei non potesse cogliere uno stupido frutto.

-"Sì. Io avrò quell'uva. Io non rinuncerò mai. Se anche Zeus mi lanciasse le sue strali, io le schiverò e le rimanderò al mittente! Finché tutti gli dèi taceranno!"

Quando la volpe ebbe scandite queste parole, la vite parve agitarsi nervosamente. Proprio quella che la volpe stava puntando con tanto affanno trasfigurò ed assunse le sembianze di Dioniso stesso, il grappolo che la volpe desiderava, posto proprio sulla sua fronte. Il dio, nudo, tese una mano al cielo e proprio in quell'istante piovve da esso il tirso, il bastone divino capace di infondere linfa vitale nelle cose.

"Osi, sfidare me, volpe mortale? Un dio dell'Olimpo?"

E puntò rapido come una saetta l'asta verso la volpe, concentrando sulla punta l'energia vitale che sarebbe bastata per far vivere la fauna di un'intera isola. Nessun essere mortale sarebbe stato capace di sostenere un'infusione di tanta energia e persino qualche dio sarebbe stato messo in difficoltà da un attacco simile.

La volpe, che ormai era folle ed era dotata di un grande istinto, non si intimorì per nulla. Balzò e morse il tirso di Dioniso e dondolandosi aggrappata ad esso, deviò il colpò, che andò a centrare in pieno il tordo Ciril.

Per alcuni secondi non successe nulla. Poi gli arti del povero tordo cominciarono a contorcersi come se fossero fatti di fil di ferro. Le ali si piegarono al contrario, poi si arrotolarono come pergamene. Il becco si spalancò ad angolo piatto.

-"Le ali mi si stanno spezzando, aiuto!"

-"Non posso più fare nulla per te, compagno tordo."

Disse Dioniso.

-"Proverai le stesse sensazioni che si provano nei Campi Elisi ancor prima della morte."

E così il tordo Ciril cantò allegro e festoso per l'ultima volta, in un'estasi di morte e disperazione. E tutti i tordi del mondo in quell'istante furono scossi da un brivido di piacere e di dolore, come se la vita e la morte insieme si fossero mescolate in una bevanda più dolce e tossica del più potente dei vini. E non furono gli stessi, mai più.

Dioniso non era un guerriero. Il tirso era potente, ma occorreva tempo per ricaricare.

Nel frattempo, la violenza degli eventi e le luci abbaglianti avevano richiamato l'attenzione dei vignaioli, che stavano ormai rincasando, affaticati per il lavoro.

Con gli ultimi sprazzi di energia, Dioniso levò la fatica ai contadini e diede loro un'insolita fame di selvaggina. Infine, si ritirò.

I vignaioli recuperano forconi, asce, falcetti. I figli di questi lanciavano sassi per mezzo di una fionda, le mogli seminavano esche avvelenate tra le viti. Avevano persino dato fuoco alla siepe attorno alla vigna, ormai resi folli dal dio.

La volpe era in trappola, tuttavia tra le sue fauci vi erano ancora brandelli del tirso. La rabbia verso questo dio vigliacco che era fuggito senza combattere accese la volpe di una potente rabbia cremisi. Infine qualcosa di orribile uscì dai sui occhi e la rivestì. L'essersi nutrita dello scettro divino aveva risvegliato qualcosa in lei, qualcosa che forse c'era sempre stato.

E divenne così non più una volpe, non più una semplice parte della natura, ma qualcosa che trascendeva essa. Qualcosa che fagocitava fiamme come fossero acqua e le risputava sulle vittime. Ma non erano fiamme normali, erano viscose come lava, ed uccidevano lentamente, fra atroci sofferenze, i nervi lentamente divorati in una terribile agonia di fronte alla quale qualunque regno dei morti sarebbe stato un sollievo.

-"Ringraziate per il dolore e la morte che vi sto offrendo, miseri burattini di un dio codardo, togliendovi a una vita miserabile e infame."

I vignaioli, le mogli, i figli, le figlie e tutti gli animali perirono tra le lingue di fuoco incandescenti ed eburnee.

E fu in quel momento che la volpe si rese conto dell'atrocità accaduta:

-"Oh no, in questo modo si è incenerita tutta l'uva! La mia unica speranza rimane il grappolo posto in capo a Dioniso!"

Ma la volpe ormai era dotata di un olfatto superiore a quello di qualunque volpe mortale. Fiutò Dioniso, che sembrava essersi ritirato in un uliveto, ad attingere linfa vitale da un enorme ulivo, uno di quelli che un grande eroe avrebbe scelto per fabbricare un arco o un letto nuziale.

Cominciò a correre verso quella direzione, ma Artemide gli si pose innanzi.

-"Volpe senza nome, non essere avventata!"

Disse la dea.

-"Io, protettrice delle bestie selvatiche, non posso permettere la tua morte a causa di un semplice grappolo d'uva. Se ora affronterai il dio, la tua disfatta sarà certa!"

-"Ma io devo avere quell'uva! Io avrò la mia vendetta!"

-"Lascia almeno che io ti spieghi la sorgente del tuo potere, o furiosa volpe assassina. Sappi che io, Artemide, da sempre provo uno sconfinato amore per ogni belva o fiera che vive sulla terra. Tuttavia l'amore, se non controllato, può generare mostri. Da mia madre Leto io venni alla luce, presso l'isola di Delo, per fuggire alla maledizione di Era. Infatti io fui il frutto dell'adulterio di Zeus. Ma quello che nessuno sapeva è che quella notte un orrore fu messo al mondo: l'anatema della regina degli dèi aveva lo stesso colpito. Mio fratello, un divino cervo, elegante nell'aspetto e muscoloso, dal manto sempre lucente, nacque quella notte, in quell'isola disgraziata. Il suo nome è Lathos e a dispetto del suo fiero aspetto, è nel suo animo che si nasconde la malvagità. Infatti egli è sadico oltre ogni dire e la tortura e la punizione dei viventi sono il suo più grande diletto. Per anni si celò a me e al mondo, dimorando in una grotta e nutrendosi di coloro che vi si appartavano dentro. Infine, conoscendo bene il mio amore per le bestie, mi si presentò e con la sua bellezza, mi sedusse. Fui gravida a causa di questo animale, non sapendo che era mio fratello, e per nove mesi la creatura che avevo in grembo mi torturò con dolori lancinanti. Non potevo nemmeno lamentarmi o urlare o raccontare la cosa a qualcuno. Ma il sorrisetto di Era mi fece intuire che lei sapeva. E così, dopo un parto di uno sconfinato dolore, venne al mondo una creatura, che io abbandonai e a cui non diedi un nome. Quella creatura sei tu, malvagia volpe senza nome."

Infine la volpe capì. Capì da dove derivavano la sua forza, la sua astuzia e la sua nobiltà. E anche la crudeltà e la rabbia che aveva in corpo. Capì anche che era suo diritto di discendenza sovvertire le leggi del mondo e sfidare un dio.

-"Madre, dammi un nome".

Disse.

-"Kyrios, tu sei. Padrona del destino e di tutto ciò in esso contenuto."

E quando ciò gli fu rivelato, la sua piena potenza emerse. Non era più del colore del sangue, era proprio fatta di sangue. Viscosa, liquida, impenetrabile a qualunque arma brandita da uomo o donna, da spartano o amazzone. La sua coda, da singola che era sempre stata, si fece triplice. Le tre code, triplicarono ancora. Le sue pupille si fecero nere, più nere del nero dove sono adagiate le stelle, e sembravano quasi capaci di inghiottirle. Ed era come se questo vuoto fosse capace di sprigionare fiamme violentissime, di un calore tale che non potesse essere compreso da nessun umano o da nessun dio, più immenso di qualsiasi titano fosse esistito prima dei tempi.

-"Qualcosa vuole castigare gli dèi, Kyrios. Quel qualcosa ha voluto che tu esistessi"

E così, Kyrios, radunò a sé ogni volpe mai esistita. Ma per farlo dovette cambiare aspetto e mutare in forte volpe colma di eleganza e maestà, o le avrebbe terrorizzate.

-"Compagne volpi, fratelli, sorelle, amici miei. Noi volpi, siamo forse tra gli esseri più sorprendenti della foresta. Noi volpi possiamo persino schernire l'uomo, il figlio di Prometeo, che tolse il fuoco agli dèi. Eppure, qualcuno vuole che noi volpi abbiamo dei limiti. Qualcuno vuole impedire a noi volpi di essere sovrane della natura. Ebbene io dico che quel qualcuno dovrà capire chi siamo! Avanti, per la nostra vittoria!"

Il carisma della volpe era ormai smisurato. Se anche le altre volpi non avessero voluto, si sarebbero mosse contro la loro stessa volontà, alle parole di Kyrios. Ma volevano.

E fu così che inizio un'epoca di terrore nel mondo, un'epoca in cui uomini e dèi soffrirono a lungo per il capriccio di una piccola volpe. Il terrore regnò per secoli e atrocità di ogni genere furono commesse. Chi dalla parte di Dioniso e chi dalla parte di Artemide, ognuno sacrificò qualcosa di prezioso. Gli oceani furono lordi del sangue di ogni creatura vivente e dagli abissi di questo sangue emersero creature dagli occhi bianchi e vitrei e dotate di denti affilati, che furono terrorizzate dallo spettacolo che si presentava sulla terra.

Una cosa è certa, dopo che ogni male ebbe avuto la meglio sul bene, dopo che vivere e soffrire avevano assunto per tutti lo stesso significato, la volpe non aveva ancora rinunciato al suo grappolo d'uva.