giovedì 21 novembre 2019

LA VOLPE E L'UVA REMASTERED - capitolo 2 - Mosto di Morti

Qualunque fosse il motivo per cui fosse successo quello che era successo, era ormai passato un anno. Pochi erano sopravvissuti. Solo i duri, solo i forti. E la terra non era stata forte. Gaia aveva sofferto, in maniera atroce, come una madre a cui unghie appuntite avessero squarciato il ventre, e zanne sadiche avessero banchettato con la prole nel grembo, per poi lasciarla in vita solo per non interrompere la sua sofferenza. E la terra pianse, pianse finché gli occhi furono talmente infiammati che andarono in cancrena e si staccarono, ma continuarono a piangere, tali erano la sofferenza e la devastazione inferte al mondo. Il numero di morti durante la terribile guerra era impressionante. Quasi tutta la popolazione della Grecia si era estinta. Ateniesi, spartani, troiani. L'isola di Itaca era sprofondata. L'arcadia era completamente deformata, ridotta a una grossa conca nella quale crepitavano fiamme dal sottosuolo e i resti di poveri animali inceneriti dalla lava, bloccati per l'eternità in grottesche pose di disperazione. Tebe, Corinto, Delfi, ormai solo un ricordo e le menti rese folli dal dolore dei pochi sopravvissuti, non riuscivano più a figurarsi che posti così belli e sfarzosi fossero potuti esistere veramente. Nell'incubo che era diventato abitudine, il passato sembrava solo un sogno, qualcosa che non sarebbe potuto esistere mai più. Posti dove la gloria dell'uomo splendeva. Ma ormai, non c'era più nessuna gloria nella vita. Frequenti erano i suicidi tra i sopravvissuti, persino gli animali, incapaci di concepire il suicidio, erano arrivati a tal punto. Gli erbivori perdevano ogni voglia di vivere; anziché fuggire i predatori, si avvicinavano alle fauci di questi ultimi, i quali, per contro, si lasciavano spontaneamente morire di fame e rifiutavano il cibo, sperando così di fermare finalmente le lacrime. Il mondo, in seguito agli sconvolgimenti, era stato decimato e sopravvivere in una terra che non dava più frutti e dove il magma bollente aveva sostituito l'acqua dolce era pressoché impossibile. Sembrava che non ci fosse più nemmeno un dio a cui rivolgersi per supplicare misericordia. Elio era certamente morto o comunque aveva terrore di uscire allo scoperto, infatti il sole non sorgeva ormai da mesi. Ma quali fiamme o quali oscuri poteri potevano minacciare il Sole? Gli stessi che avevano spinto al suicidio uomini e animali. Molti sceglievano di gettarsi in mare, così le acque erano ormai stracolme di cadaveri, i mari erano come un immenso tino di mosto e i cadaveri come acini d'uva lasciati a fermentare... Uno spumoso vino di sangue lambiva le coste, mescolandosi con le lacrime di quelli che si ostinavano a vivere.

Brachys era un valoroso soldato tebano, appartenente al battaglione sacro. Centocinquanta coppie di soldati, trecento uomini che combattevano per ispirazione divina, per Eros. Peos era il suo compagno. Quello forte nella coppia era sempre stato lui, quello dominante. Peos non era originario di Tebe, suo padre era spartano. Le voci circolano e si arrivò a dire di lui che fosse figlio di Zeus, di un centauro o persino del prode Leonida. Follia pura: in realtà il padre di Peos aveva ripudiato la madre: tornato da una breve campagna militare, udì da voci calunniose che la donna era stata violentata. A lungo ella giurò al marito che il figlio che portava in grembo era veramente suo, ma egli, folle di gelosia, non volle saper ragioni e la buttò fuori di casa proprio come si butta da una scogliera un caprone malato e contagioso.  La donna, gravida, seppur disonorata era ancora giovane e nel pieno delle sue grazie. Sposò così un mercante tebano e andò a vivere presso di lui a Tebe. L'uomo raccontò a tutti che il figlio nel grembo della donna era il suo e la sposò. Gli anni trascorsero così felici e il piccolo Peos fece una vita agiata e serena, troppo serena per lui. C'era sempre qualcosa che lo rendeva agitato e rabbioso, voleva dimostrare agli altri il suo valore, dunque si fece soldato. Non era nemmeno dodicenne, quando rubò uno dei cavalli del padre putativo e partì per arruolarsi, ignorando il volere dei genitori. Sotto le armi conobbe Brachys, un valoroso combattente, più forte di quanto egli stesso credesse e soprattutto, molto resistente al dolore. Ferito in battaglia, egli non si fermava, anzi, sembrava che il dolore lo conducesse all'esaltazione, nella quale, con la stessa frenesia di un cavallo spronato dalla frusta, uccideva i nemici. Tuttavia, Brachys, non aveva alcuna stima né fiducia in sé stesso, ma aveva trovato in Peos quello stimolo per cui combattere. I due si erano innamorati quasi subito. Peos era ormai quindicenne ed era considerato a tutti gli effetti un soldato di Tebe, quando conobbe Brachys, di due anni più giovane di lui e ancora sottoposto ad un duro addestramento. Rimase impressionato dalla capacità di sacrificarsi del ragazzo, del suo combattere nonostante fatica, freddo, fame e ferite aperte in corpo. A differenza di altri soldati, sembrava che Brachys non combattesse per l'onore e per la gloria, ma per soffrire ed essere umiliato, in una perenne ricerca della morte. Questo lo rendeva un guerriero imprevedibile in battaglia e molto pericoloso. Passarono dieci anni, i due erano ormai una coppia, insieme avevano combattuto molte battaglie e rischiato spesso la vita assieme e l'un per l'altro. Ma Brachys, spesso taciturno, non aveva mai rivelato il suo passato a Peos, che lo amava lo stesso, ma era un po' deluso nel constatare che il suo compagno spesso non si confidava con lui e affrontava da solo i propri demoni. Avrebbe voluto incoraggiarlo e consigliarlo, ma non poteva far niente.

Così, in una giornata di congedo, con una campagna militare ormai alle spalle e nessuna guerra all'orizzonte, i due soldati, che avevano ormai di che vivere ed erano celebrati in tutta Tebe come valorosi veterani, decisero di tornare nel loro palazzo ai piedi del monte Citerone, dove solitamente trascorrevano le vacanze e dove nel quale, in loro assenza, servi e pastori si occupavano della casa, delle vigne e delle pecore. Il palazzo era dotato anche di una piccola corte, dove, nelle serate estive, si radunavano suonatori dai villaggi confinanti e nei lunghi inverni ci si scaldava con il vino, il cui raccolto era sempre abbondante. Brachys e Peos infatti erano molto devoti a Dioniso, anzi forse erano i più devoti di tutta Tebe. Gran parte dei loro guadagni erano stati spesi per costruire di fronte al loro palazzo una maestosa statua di Dioniso. Si diceva infatti che i due avessero il favore del Dio e Brachys dava il meglio di sé quando, in preda ai fumi del nettare d'uva, combatteva senza aver controllo di sé e resistendo ad ogni dolore, quasi che Dioniso stesso si impossessasse del suo corpo e lo manovrasse come un burattino.

Si fece sera e i due si appartarono nelle loro aule, dove sotto una terrazza composta da grandi logge e tende di seta ondulate, si potevano ben vedere il cielo stellato che riparava come un immenso scudo il monte. Peos riempì un calice del loro vino a Brachys e poi ne versò per sé. Alzarano i calici e dissero:

"Al monte sacro a Dioniso!"
"Al monte Citerone"

I due bevvero e il loro vino era un rosso davvero forte, come se la vigna fosse benedetta da qualche prodigio del dio. Fuoco Greco, avevano osato chiamarlo, con un pizzico di arroganza, voluta perlopiù da Peos. Ma il vino era davvero capace di infiammare subito anche uomini alti e fisicamente prestanti come i due soldati. Dopo un paio di bicchieri, Peos accese degli incensi e condusse Brachys nella sala da bagno, dove una vasca di marmo e terracotta accoglieva l'acqua che sgorgava da una sorgente nei pressi. Lì accese delle preziosissime candele, ottenute a caro prezzo da un apicoltore amico del patrigno. Si adagiarono assieme nella vasca, che rilasciava un leggero calore termale. Il tepore dell'acqua, il calore dell'alcol e il calore dei loro atletici corpi produssero il loro effetto. Peos afferrò Brachys per la nuca, ne afferrò i capelli, abbassò la sua testa all'indietro e prese a baciarlo appassionatamente. Conoscendo bene la resistenza del suo compagno al dolore, gli morse le labbra. Questo scatenò in Brachys un sussulto involontario e una parte di lui divenne tesa, fino a premere sulla coscia di Peos. Quando il compagno arrivava a questo punto, Peos sapeva cosa fare. Afferrò Brachys per il collo e lo rigirò. Naturalmente non avrebbe mai potuto rigirare così facilmente il virile e forzuto Brachys con le sue sole forze, era il compagno che si lasciava fare, passivo di indole caratteriale e non certo incapace di difendersi. E così, lo stesso soldato che aveva vinto battaglie, ucciso valorosi rivali, conquistato città e impaurito re, ora veniva umilmente infilzato dall'irruenza del compagno, che ebbro di questa consapevolezza, insisteva quasi con rabbia nel sottometterlo. Peos sapeva bene che Brachys era molto più forte di lui. Se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto riempirsi di ogni gloria e ambire al ruolo di generale supremo di Tebe. Eppure, la sua indole lo portava ad avere un segreto piacere nell'essere umiliato, non certo nel trionfo della superbia. Peos non se ne crucciava, poiché finché fosse stato al suo fianco a dirigerlo, la sua carriera era assicurata. Ma segretamente invidiava il compagno e ne era geloso e desiderava che la sua forza fosse tutta sua. Possederlo fisicamente era l'unico modo per compensare questi sentimenti. Fu in quel momento, mentre i due erano presi dall'affanno del virile amplesso, che il monte Citerone esplose di botto, come se una forza ben oltre la comprensione umana e divina lo avesse colpito, come se le divinità primordiali si fossero ridestate da un sonno lungo quanto il tempo stesso, per riplasmare il mondo. Ma i due compagni erano talmente presi dal loro atto sessuale e tanto grandi erano le sensazioni che stavano provando, che non si poterono fermare, nemmeno quando la terra cominciò a tremare come la corda di una lira e i servi cominciarono a correre e a gridare: "Aiuto!" per la disperazione. In quel momento i due erano totalmente persi nei loro sensi e nel loro vino, il Fuoco Greco, e non sentivano più null'altro. Ognuno era il mondo dell'altro, un mondo in cui ogni altra sensazione era esclusa, ed esisteva solo il piacere. Il piacere di essere dominato, per Brachys, e il piacere di dominare, per Peos.

Passarono le ore e ad un alba che stranamente non giunse, Brachys si risvegliò. Tutto era stato raso al suolo e il suolo era sprofondato. La montagna, all'ombra della quale la loro casa risiedeva, era come se non ci fosse mai stata. Tuttavia l'ombra permaneva, perché il sole non era in cielo e sembrava che il mondo fosse avvolto da una notte perenne. Infine lo vide. Peos si era suicidato. La visione di tutto questa devastazione e tormento, lo avevano distrutto. Peos era ambizioso e sapere che tutto era perduto, doveva averlo sconvolto. Solo Brachys, nel suo masochismo, poteva accettare questo mondo infernale fatto di sofferenza, e viverci. Pianse così la morte di Peos per giorni e incominciò a domandarsi quale fosse la causa di tutto questo e se vi fossero ancora altri sopravvissuti. Ancora non sapeva, quanto infernale poteva essere questo mondo.

Pregò Dioniso affinché lo ascoltasse, riponendo nel dio ogni fiducia.
Il dio apparve, nudo, un grappolo d'uva saldamente piantato in testa.

"Alzati."

Disse.

"Oh figlio di Zeus e Persefone, perché gli dei castigano così il mondo? Noi ti abbiamo sempre onorato con devozione! Perché al mio compagno non è stata riservata un'onorevole morte in battaglia?"

"La stessa crudeltà che sta castigando gli uomini, odia con ancora più forza gli dèi. Ciò che è accaduto alla terra è solo il frutto di un suo capriccio."

"Spiegati, dio dell'ebbrezza"

"Non qui, non è sicuro. Ti condurrò ove dimorano gli dèi."

"Il monte Olimpo?"

"L'Olimpo è caduto, tebano."

"Cosa? COSA? Com'è poss..."

In quel momento apparve una cosa. Un essere capace di fiutare l'intero universo. Parve comparire dal nulla, invece era arrivata silenziosa e a grandissima velocità. Era sangue, puro sangue, rosso e bollente come il vino, al centro del quale pulsava un'oscurità nera come il più profondo cielo notturno.

Una voce terribile, capace da sola di terrorizzare l'uomo e il dio, ringhiò:

"NON E' ACERBAAAAAAAAA! NON E' ACERBAAAAAAA!"

E non sarebbe mai marcita finché sarebbe rimasta in capo al dio.

"Ganimede!" gridò Dioniso, disperato.

E Ganimede apparve. Pareva nudo, ma indossava veli tanto aderenti e trasparenti da farlo apparire tale. I capelli biondi non sembravano aurei, erano esattamente fatti d'oro. Sul corpo tanti disegni, fatti dal padre degli con i lampi, per diletto.

Ganimede apparve, il corpo gocciolante di un liquido misterioso. Levando le braccia verso l'alto, fece apparire un brocca di vino, con la quale cosparse Brachys e Dioniso, che scomparvero. Infine, evocò una coppa contenente un liquido misterioso, che pareva latte di capra, ma più denso e se lo schizzò in faccia, cominciando a leccarsi le labbra sporche del mistico liquido, finché non sparì anche lui.

Il trio, riapparve nell'isola di Lesbo, fra le poche isole rimaste in tutta la Grecia. L'unica isola dove esistesse ancora acqua potabile e che permettesse la vita. Ma non essendo più il mare navigabile perché continuamente in tempesta e infestato di cadaveri che stavano cominciando ad attirare mostri marini dagli abissi, solo chi volava o sapeva utilizzare la magia poteva raggiungere l'isola, che era ormai quindi completamente preclusa agli uomini.

Brachys era completamente spaesato.

"Ti devo spiegazioni." Disse colui che brandiva il tirso.

Si sedettero sul ceppo di un tronco tagliato dalla scure dorata di un boscaiolo che era stata lasciata lì vicino. Il proprietario, terrorizzato dai terremoti, doveva averla perduta.

"Tutto questo è accaduto a causa dell'ambizione di una semplice volpe. Che non è una semplice volpe, ma un'entità che possiede poteri simili a quelli degli esseri primordiali, le forze che hanno creato il mondo. Da volpe osò sfidarmi, ma io, che grazie a mio padre Zeus conoscevo la sua pericolosità, tentai di fermarla. Ma era già troppo tardi. Il Re dell'Olimpo mi aveva avvertito, profeticamente, che una volpe arrogante sarebbe venuta allo scoperto, manifestando il bisogno di sovvertire le leggi naturali. Fortunatamente, un tordo mio servitore era lì in quel momento a testimoniare l'evento. Pregando dentro di sé mi richiamò. Intervenni, ma fui costretto alla ritirata dalla potenza di quell'essere."

"Hai detto che voleva sovvertire le leggi naturali. Cosa intendi?"

"Uva" disse Ganimede.

"Il grappolo d'uva posto sulla mia fronte."

"Uva..." Disse Brachys.

"Cioè, quello che è successo al mondo... E'accaduto per un grappolo d'uva? Ho perso Peos perché una volpa voleva mangiare dell'uva?"

"Sì. E' così."

"NOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!" Perfino per un masochista come lui questo dolore era troppo.

E in lacrime disse: "Ma perché? Perché non gliela avete lasciata prendere? Cos'é misera uva in cambio delle sorti del mondo?"

"L'uva è solo un simbolo. E' l'idea della volpa di voler alterare le leggi naturali, il vero pericolo. Le idee, nel regno materiale, non sono perfette, assolute, inalterabili, senza tempo. La profezia che mio padre Zeus mi rivelò, diceva che se questo essere antico avesse realizzato una sua ambizione, una sua idea, una soltanto, tutte le altre sue idee avrebbero preso perfetta forma in questo mondo. Così, questo essere avrebbe avuto poteri assoluti su tutto ciò che esiste, sia nel mondo materiale che in quello ideale. Avrebbe posseduto poteri totali, superiori persino a quelli del Demiurgo. Ma la sua natura distruttiva l'avrebbe portata a non accontentarsi di deformare il mondo con la violenza che hai visto. Probabilmente avrebbe annullato ogni cosa, avrebbe distrutto l'eternità, il tempo, la vastità delle stelle e la memoria di tutto il creato. Infine, avrebbe spento pure il mondo delle idee, impedendo alle cose di generarsi di nuovo, come se nulla fosse mai esistito. Per questo, ho dovuto fermarla, a rischio della mia vita."

"Ma come? Come? Cosa stanno facendo gli altri déi? Potrebbero valutare un'alleanza coi titani e..."

"Gli dèi sono stati decimati. Ciò che è accaduto al mondo è il frutto della strage operata dalla volpe. Solo io e Ganimede siamo rimasti. Forse Elio, che si nasconde. Non abbiamo notizie di Ade, dalle profondità della terra. Zeus è stato il primo a cadere. I cadaveri di molti titani sono seminati per la Grecia, la testa di Crono ha sepolto Atene."

"E cosa volete da me? Come posso aiutarvi io, un semplice soldato?"

"E' la tua idea di vendetta che cercavo. Tu sei l'unico uomo innamorato rimasto al mondo. Che anche nella tragedia ricorda l'amore. Tu vuoi vendicarti della volpe. Tu immagini nella tua mente la volpe morta. Nel mondo delle idee c'è l'idea pura, cristallina e perfetta di te che uccidi questa volpe. Non dovremo fare alto che prendere questa idea e portarla nel mondo materiale... E la volpe morirà."

"Ma questo è impossibile. Idee e mondo materiale sono completamente separati."

"E invece io ti dico che sono dipendenti l'uno dall'altro." Indicò un gran palazzo con una corte, una specie di accademia. "Seguimi, Brachyos, c'è chi te lo potrà spiegare meglio di me.

Entrarono, arrivarono ad una solenne stanza, dove una studiosa era intenta a fare ricerche su tomi che pareva avrebbero potuto spezzare la sua esile colonna vertebrale da libellula.

Ganimede disse: "Brachys, ti presento Saffo, poetessa e filosofa, la migliore di tutta la Grecia."

Saffo sorrise: "La migliore di tutta l'isola, sarebbe dir troppo."

Brachys ne restò sconvolto. Non aveva più visto nessuno sorridere da giorni.

"So cosa ti turba, guerriero. Ti chiedi cosa ci sia da ridere. In effetti, anche io sono in grave lutto. Le mie studentesse sono tutte suicide. Io mi sono bloccata per giorni, congelata nei miei pensieri, senza mangiare e bere. Finché non ho incontrato Dioniso, in fuga nella mia isola. Grazie al suo tirso, abbiamo ricostruito alcune cose, ma soprattutto, i miei pensieri mi hanno ridonato la speranza. Io ho suggerito al dio di cercare una persona con un intenso desiderio di vendetta verso la volpe."

"Già, ma cosa posso fare? Raggiungere il mondo delle idee è impossibile, scellerati!"